Tricefalo e tricolore

Cari lettori,
scrivo una lettera, non un articolo. Preferisco in questo caso essere più estemporaneo, non strutturare le parole, raccontare un’esperienza senza confezionarla in un pezzo.
Oramai mi sembra di dover stare attento a quello che scrivo. Quando ho dedicato una settimana alla stesura di un articolo intitolato “Credere alle cose“, ancora non arrivava la puzza di discarica in casa. Dopo, respirare è stato sempre più come deglutire un linfoma. Qualche giorno addietro è stato pubblicato un mio articolo sulla bella e affascinante storia democratica di Chelsea, cittadina del Massachusets. Ho usato immagini legate al fuoco. L’inizio è su un pompiere, la fine sulla libertà: tutto legato al fuoco: “libertà è creare e spegnere gli incendi”.
Ebbene, tempo due giorni dalla pubblicazione, sotto casa avevo i pompieri. Tutta la terra del mio piccolo quartiere è andata in fumo. Il fuoco è giunto sino a casa mia, poiché le sterpaglie arrivano a venti metri dal mio balcone. Per poco non si è rischiato che saltasse in aria l’auto qui sotto parcheggiata, non essendo stato rintracciato in tempo il proprietario perché la spostasse. Ora qui è tutto cenere, fumo. Ho un lieve bruciore alla gola. Se esco fuori al balcone, davanti ho il terreno bruciato. Posso annusare, sentire l’odore di terra arsa. Ma sulla destra, a pochi chilometri e in perfetta coincidenza in linea d’aria, c’è la discarica a cielo aperto.
Stamattina gli odori sono insopportabili. Cenere e veleno. L’atto della vita, il respiro, è un atto patogeno: eh sì, la malattia pure fa parte della vita, e la malattia è la forma di stare al mondo che abbiamo scelto da queste parti. Noi tutti, intendo. Perché se da una parte le imprese del crimine hanno contaminato terra, acqua e aria della regione, dall’altra noi Casertani non siamo capaci di fare niente.
Le manifestazioni vedono un numero esiguo di partecipanti. Ma anche con ciò saremmo nell’ordine di cose normali, se non fosse che a Caserta le persone non sono soltanto indifferenti, ma addirittura ostili a chi lottando rompe i coglioni.
E’ accaduto l’estate scorsa. Il 6 luglio si è svolta una fiaccolata per richiamare l’attenzione sui problemi che ci riguardano quanto un peccato mortale riguarda un timorato di Dio. Il traffico è stato bloccato. I Casertani in macchina, per tutto il tempo hanno suonato i loro clacson. Tutti, dico proprio tutti: immaginate il suono del clacson di ogni auto in una determinata zona di città. Era la loro protesta. Contro noi. Desideravano tornare a casa, prendere le direzioni che avevano programmato. E suonavano, suonavano. Più lo facevano più noi non potevamo parlare. Coprivano le parole anche se urlate al microfono. Alcuni manifestanti hanno pensato che forse non si rendessero conto. Sono andati a consegnare dei volantini che spiegavano i motivi della manifestazione. Mai come in quell’occasione si era lì per tutti. Una manifestazione sindacale, in fondo, è di parte, è per i lavoratori. Ai commercianti non interessa. I rifiuti e le discariche, al contrario, coinvolgono proprio tutti. Ma a Caserta anche la respirazione è affare privato, ognuno respiri per sé.
Gli automobilisti hanno preso i volantini, li hanno gettati a terra (per strada!) e hanno mandato affanculo chi glieli porgeva. Hanno mandato affanculo tutti, hanno suonato il clacson, ancora, sempre, per tutto il tempo.
La tentazione che si ha è quella di rarefarsi, non si sa dove fuggire. Chi è solo, respira solo. Ma noi non vorremmo nemmeno respirare. Qui non c’è niente da fare. Non puoi isolarti dal corpo, non puoi non respirare. Allo stesso tempo, è difficile accettare la morte prima della morte. Da qualche giorno ho sempre in testa l’inizio della mia nota biografia su Godò: è il più giovane tra tutti. Mi viene sempre da concludere: sarà il primo a morire. Non voglio esser patetico, ma dovete immaginare com’è qui.
Secondo il racconto di veterinari, in zona avremmo (ed è cosa che si ripete) pecore con due teste, amici mi dicono addirittura con tre (ma siamo su un terreno sdrucciolevole). Valga l’immagine, quelle tre teste testimoniano che io davvero sto morendo. Io e gli altri. Non è solo la camorra ad ammazzarci: ci ammazzano i Casertani che ci respinono, le sentenze in tribunale che riaprono le discariche due giorni dopo averne decretato la chiusura.
Ho da poco appreso che per presentare ricorso e denunciare i danni alla salute provocati dalla discarica da parte di chi vive lì vicino, occorre rivolgersi al Tar del Lazio (un incremento di difficoltà logistiche nonché di dispendio economico) e pagare preventivamente una tassa imposta di duemila euro. Una carica senza contundente. Un modo che comprime le reazioni dei cittadini, un modo che le scoraggia.
Noi qui scherziamo diversamente, abbiamo un’ironia diversa da quella di tanti altri giovani. I ragazzi del GIOSEF (un’associazione giovanile casertana che organizza interscambi culturali) hanno dialogato con ragazzi stranieri, e si sono chiesti reciprocamente quali fossero i progetti, si sono domandati come immaginavano il futuro. Spagnoli, portoghesi, norvegesi, parlavano dei lavori che gradivano, se si sposavano o meno. I Casertani hanno scherzato all’unisono, hanno detto tutti la stessa cosa, sembrando pessimisti. Hanno detto che sarebbero morti a trent’anni con tumori di vario tipo per via delle discariche.
Quando si verifica una tale convergenza, quando tutti iniziano a dire – improvvisando – le stesse cose, si ha come il segnale di un cambiamento. Oltre alle analisi sull’incidenza di tumori in aree geografiche con una massiccia presenza di discariche, oltre alle indagini sui tassi di mortalità per cause neoplastiche, è opportuno riconoscere anche che qui si è verificato un cambiamento di tipo antropologico. Noi non abbiamo più alcuna fiducia nelle possibilità del futuro. Ma non come un qualsiasi giovane stritolato dal mercato del lavoro, che è un precario e non avrà famiglia. Oltre a questo, a noi manca la speranza di poter sopravvivere. Una razza di italiani diversi, con un’altra bandiera. Senza tricolore ma con tre teste di pecora.
Un abbraccio

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